"Metaforicamente scattando". Così si intitola il progetto fotografico di Donatella Arione, vincitrice del Pepe contest#2, di PEPE Fotografia dal titolo "Respira!", un imperativo che all'inizio ti paralizza e ti lascia incapace di pensare a qualsiasi altra cosa, se non all'atto stesso di respirare, imposto, comandato, come se uno altrimenti si dimenticasse di farlo e morisse e subito dopo scatena il desiderio di interpretarlo, di dargli una forma, un volto, un nome, quasi a essergli grati di averci ricordato di respirare.
"Metaforicamente scattando" è un progetto di autoritratti composto da cinque scatti a camera fissa.
Noi li abbiamo guardati e riguardati e, a ogni dettaglio che si rivelava ai nostri occhi, aumentavano le nostre curiosità. Così abbiamo pensato di approfondire la conoscenza di Donatella Arione e del suo progetto incontrandola e facendo raccontare direttamente a lei questa storia.
Intervista a Donatella Arione
Come è nato "Metaforicamente scattando"?
Non poteva non nascere. Nel momento in cui ho deciso di iniziare a pensare al contest, sembrava non poterci essere tema più adeguato: "respira!", calzava a pennello con il momento e lo stato d'animo in cui mi trovavo e mi trovo.
Perchè proprio una serie di autoritratti e che relazione c'è con l'acqua?
Da subito ho iniziato a cercare un po' di idee nella mia mente, ma quella che predominava sempre su tutte era quella di lavorare "su di me".
Per il semplice fatto che avevo veramente bisogno di "respirare" e volevo cercare, in qualche modo di trasmettere questo stato d'animo con le mie foto. Volevo che fosse "la mia valvola di sfogo", quasi per liberarmi da un peso... volevo divertirmi e, soprattutto ritagliarmi il tempo giusto per seguire questo progetto. Stop a tutto il resto, ora si respira.
Per questo motivo ho scelto una serie di autoritratti, rinchiusi in un formato quadrato con il quale volevo calcare ancora di più l'attenzione proprio sull'espressione e, di conseguenza, sull'ansia e sullo sforzo che spesso segnava il volto.
Autoritratti per dar forma ad un ciclo, come se fossero delle fasi, dei passaggi: il respiro all'esterno senza però mai abbandonare l'acqua, senza uscirne completamente, (perchè anche se decidiamo di prenderci il nostro tempo tutto quello che ci circonda non scompare, ma continua ad esser parte di noi), il primo momento in cui il respiro appena preso ci consente, e ci illude, di avere ancora la possibilità di resistere e poi i momenti successivi, in cui l'aria che pensavamo potesse bastare inizia a finire e lo sforzo per resistere segna inesorabilmente il volto modificandolo, proprio come tutte le preoccupazioni, lo stress e la fretta delle nostre vite, segna il nostro essere e, a volte, un po' ci muta. Ma arriva il momento in cui il fiato manca e c'è il bisogno di riemergere, anche in questo caso non volevo mostrare il distacco con l'acqua, volevo mantenere continuità, dato che l'impulso di uscire dall'acqua è un vero e proprio scatto repentino ma il processo vero e proprio di riprendere fiato è molto lento e avviene sempre a stretto contatto con ciò che ti circonda, metaforicamente, l'acqua. Volevo dare continuità e soprattutto volevo che fosse un ciclo.
Come hai maturato questa idea?
L'idea della vasca da bagno è uscita una notte mentre mi confrontavo con mia sorella sulle ipotesi di realizzazione che mi stavano passando per la testa per questo progetto. Ad un certo punto lei ha tirato in ballo la vasca da bagno: "chissà come uscirebbero lì?!", di primo acchito ci siamo fatte una risata e ho pensato fosse impossibile, soprattutto vedevo molto difficoltoso riuscire a lavorare su di me utilizzando questa formula. Siamo passate ad altro e la vasca da bagno e rimasta lì, nella mia testa... sembrava proprio non volesse più uscire. Pian piano, nella mia mente, il progetto ha iniziato a prender forma... la metafora che volevo esprimere poteva essere espressa al meglio utilizzando quest'espediente. Rimaneva solo la difficoltà tecnica di realizzare gli scatti.
Come hai deciso di procedere allora?
Ho riempito per bene la vasca e ho iniziato a pensare a come sistemare le luci per ottenere il risultato che mentalmente avevo creato. Prove su prove, effettivamente l'impresa non sembrava affatto più facile di come me l'ero immaginata. Innanzitutto come sistemare il cavalletto, in un spazio ristretto, in modo da ottenere un'inquadratura buona, che potesse funzionare. Primo step risolto non con pochi problemi... alla fine mi sono ritrovata con il cavalletto per metà a mollo dentro la vasca e la macchina inclinata all'incirca di 45° verso il basso... verso l'acqua, ovviamente per tutto il tempo ho avuto il terrore che il cavalletto non reggesse il peso della macchina inclinata e la lasciasse cadere rovinosamente in acqua! Ero letteralmente terrorizzata ma, fortunatamente ciò non è accaduto!. Ora toccava alle luci. Ho deciso di scattare al buio utilizzando il flash della macchina come master e un flash esterno da posizionare a mio piacere... sì, ma come?! altro dilemma. Alla fine ho optato per una serie di pannelli riflettenti, uno solo propriamente pannello gli altri dei supporti di polistirolo e un telo bianco al posto della doccia... ho cercato di rendere il bagno il più riflettente possibile.
Le cinque foto del progetto, esclusa la prima, sono state scattate con questa soluzione: pannello di polistirolo dietro la mia testa, telo bianco dove si riusciva ad appoggiare, pannello riflettente dietro la macchina fotografica (quindi dalla parte dei miei piedi), cercando di mantenere la stessa inclinazione verso il basso della macchina. il flash master puntava verso di me mentre, lo slave, puntava verso il pannello riflettente. Questa soluzione, dopo diverse prove ovviamente, si è rivelata buona per mantenere la trasparenza dell'acqua. perché era proprio di questo che avevo bisogno. Una buona illuminazione senza però compromettere la trasparenza, in modo da lasciare visibile il mio volto e l'espressione.
Le cinque foto del progetto, esclusa la prima, sono state scattate con questa soluzione: pannello di polistirolo dietro la mia testa, telo bianco dove si riusciva ad appoggiare, pannello riflettente dietro la macchina fotografica (quindi dalla parte dei miei piedi), cercando di mantenere la stessa inclinazione verso il basso della macchina. il flash master puntava verso di me mentre, lo slave, puntava verso il pannello riflettente. Questa soluzione, dopo diverse prove ovviamente, si è rivelata buona per mantenere la trasparenza dell'acqua. perché era proprio di questo che avevo bisogno. Una buona illuminazione senza però compromettere la trasparenza, in modo da lasciare visibile il mio volto e l'espressione.
Per la prima foto del progetto ho invece variato la sistemazione delle luci, visto che avevo notato che il flash sull'acqua produceva un effetto molto interessante. Per ottenerlo ho semplicemente spostato lo slave dietro di me, in modo che puntasse direttamente al pannello di polistirolo che si trovava dietro la mia testa.
E per quanto riguarda la realizzazione pratica degli scatti?
A quel punto non mi restava che fare un bel respiro e immergermi... ma non è affatto facile gestire il proprio corpo, il proprio viso, quando litri e litri d'acqua cercano ogni possibile via per arrivare ai tuoi polmoni. C'è voluto del tempo per trovare la "respirazione" giusta e il modo di "convivere" con tutto questo. Ma a quel punto ero veramente consapevole che la metafora calzava a pennello, la stavo provando sulla mia pelle.
Tutti questi passaggi sono stati fatti utilizzando il led lampeggiante dell'autoscatto come punto di riferimento, immersioni più rapide per i primi scatti e vera e propria apnea negli ultimi.
Volevo imprigionare e restituire il mio stato d'animo, volevo sfogarmi, volevo trasmettere delle sensazioni e volevo farlo con la fotografia. L'arte che più mi appassiona e che mi permette, sempre più spesso, di "respirare".
Mi sarebbe piaciuto che queste foto non restituissero qualcosa solo dal punto di vista estetico ma che fossero in grado anche di trasmettere qualcosa che va oltre il visibile, catturando l'attenzione non solo per la composizione, le luci e i colori (per i quali ho lavorato un po' in post produzione in modo da riuscire ad ottenere qualcosa di molto simile a quello che avevo in mente) ma perché in grado di trasmettere uno stato d'animo con il quale chiunque si è già confrontato.
Chi è Donatella Arione?
Sono nata ad Alba nel 1985, la mia passione per la fotografia è iniziata da piccola quando ricevetti in regalo la mia prima macchina fotografica: una nikon a rullino senza troppe pretese. Un amore a prima vista. Con mio nonno, un artista intagliatore di legno, ebbi fin da subito la possibilità di confrontarmi con la fotografia, anche sperimentando. Ogni volta che lui finiva un nuovo lavoro mi chiamava e cercavamo il modo migliore per fotografarlo. Una pratica che è andata avanti sempre, passando dal rullino della mia nikon, alle prime compatte digitali fino alla mia prima reflex... una Olympus E-500. Poi mi sono laureata al Dams e ora per vivere faccio un altro lavoro, ma la fotografia rimane la mia passione e cerco di sfruttare ogni occasione per poterla coltivare e sviluppare.
Ringraziamo Donatella per il tempo che ci ha dedicato per questa intervista e per averci raccontato cosa c'è dietro a questi cinque scatti, apparentemente molto simili tra loro. La ringraziamo per averci svelato gli escamotage tecnici che ci stanno dietro, ma soprattutto per averci raccontato le emozioni che l'hanno spinta ad affrontare il tema andando in questa direzione. Chiudiamo riportando fedelmente il testo che accompagna il progetto fotografico.
Metaforicamente scattando
di Donatella Arione
Mi manca l’aria, mi sento soffocare e sto sprofondando sommersa dal mio stesso mondo.
Ho bisogno di respirare!
Una boccata d’aria, anche breve.
Il mio tempo gestito come voglio io, il mio ossigeno.
Cerco di resistere, la mente si annebbia.
L’assenza d’aria mi logora, mi muta.
Quasi non mi riconosco più.
Prendi una decisione: o ti lasci soffocare oppure reagisci.
La mente torna lucida,
ricordo quello di cui ho bisogno,
trovare il mio ossigeno,
quello migliore, quello che si possa conservare.
Riemergo dal marasma del mio stesso mondo, anche solo per un attimo.
Quanto basta.
Respiro, consapevole che questo non sarà che l’inizio
del medesimo ciclo che sembrerebbe invece concluso.
Trattenere il fiato sott’acqua, una metafora per provare a dar forma ad uno stato d’animo,
per cercare di descrivere un ciclo che, volenti o nolenti, scandisce le nostre giornate.
Vittime di noi stessi, della frenesia e del tempo che incalza,
possiamo restare a galla solamente trovando il momento giusto per respirare.